La cultura contemporanea propone modelli nei quali spesso non è facile identificarsi: il benessere e la felicità, per esempio, si ritiene che siano conquistati solamente quando si raggiungono certi standard di vita. Questo modo di vedere le cose influenza le nostre opinioni e ci induce ad avere dei pregiudizi in merito ad alcune delle realtà che ci circondano, quando queste si discostano dai modelli proposti. Derivato dal sostantivo latino prae-judicium (che significa giudizio dato precedentemente alla conoscenza di u fatto) questo termine sta ad indicare un pensiero formulato prima di possedere gli elementi necessari per una oggettiva considerazione delle cose. La naturale conseguenza di un pregiudizio è l’assunzione di un determinato atteggiamento, che dispone l’individuo ad agire in un certo modo.
Questa considerazione, che può senz’altro essere applicata a differenti aspetti del nostro vivere quotidiano, diventa ancor più vera quando ci si riferisce al mondo dell’handicap. Spesso, quando si incontra una persona disabile, si sentono fare dei commenti di questo tipo: “Poverino!”, “Che disgrazia!”, ecc. , che denotano null’altro che la comune visione del problema. Diventa allora importante fermarsi a pensare quanto sia necessario comprendere quale significato si dia soli¬tamente a termini quali condivisione, integrazione , solidarietà : sono vocaboli che ci vengono ripetutamente proposti anche dai mass¬media e nei quali pertanto si imbattono tutti, non solo chi interagisce quotidianamente con il mondo della disabilità. Ognuno di noi, nel proprio vissuto quotidiano, ha a che fare con qualche realtà di bisogno (bambini , anziani, disabili, ammalati), pertanto alcune puntualizzazioni possono interessare tutti. Il valore di ogni persona umana, Il rispetto per l’handicappato, l’attenzione all’ultimo, sono definizioni che ricorrono nei discorsi ufficiali , nelle campagne pubblicitarie, nelle riviste specializzate e in quelle di informazione. Queste definizioni colpiscono il nostro immaginario e a volte suscitano in noi un genuino desiderio di fare qualcosa per chi ne ha bisogno. Nell’uomo comune -colui che, per esempio, una sera accendendo il televisore si trova sintonizzato con un programma che preveda una raccolta di fondi per fini di beneficenza -si mettono talora in moto meccanismi di coinvolgimento emotivo che lo inducono per qualche ora a desiderare realmente di partecipare ad un’opera di utilità sociale, a sentirsi solidale con chi si trova in uno stato di necessità. Il termine solidarietà, tuttavia, ha un significato ben più ampio. Lo Zingare Ili (Vocabolario della Lingua Italiana) lo definisce così: sentimento di fratellanza, di vicendevole aiuto, materiale e morale, esistente fra i membri di una società. Si comprende, allora, come una reale solidarietà vada ben oltre una partecipazione sporadica, che è comunque una cosa positiva. Essa implica piuttosto un cammino percorso insieme, dove coloro che apparentemente offrono aiuto e coloro che apparentemente lo ricevono hanno pari dignità e si integrano, cioè si completano aggiungendo l’uno ciò che manca all’altro fino a fondersi divenendo un tutto compiuto. Questo non significa negare lo stato di bisogno della persone in difficoltà , ma riconoscere che l’altro non è un oggetto al quale prestare una serie di cure, ma un soggetto con cui posso interagire su di un piano di pari dignità. Se mi trovo ad avere a che fare con una persona anziana che ha impedimento a camminare ed è priva di sedia a rotelle , per esempio, posso attivarmi per procurargli l’ausilio di cui ha bisogno, ma devo anche rendermi conto che questo non basta. Forse trascorrere un po’ del mio tempo con lei, giocando a carte o chiacchierando del più e del meno (non servono grandi discorsi) la farà sentire ancora partecipe alla vita, anche se non cambierà l’evidenza dei fatti e cioè la sua non-autonomia nei movimenti. Le ore passate con questa persona diventeranno, in tal modo, anche per me un’occasione per stare in compagnia, per staccare dagli impegni quotidiani, per ascoltare “le storie di una volta”, per vivere un rapporto nel quale il poco o tanto tempo che metto a disposizione diviene veicolo di scambio con un “altro come me”. Non sono più io che “altruisticamente” offro qualcosa, ma entrambe riceviamo notizie, attenzioni e simpatia l’uno dall’altro. Essere solidali con chi ci sta intorno, insomma, non può essere una maniera per “mettere a posto la nostra coscienza” e nemmeno “per farci sentire più buoni”. La solidarietà non può essere un movimento verticale dall’alto verso il basso, nel quale chi “possiede” (denaro, salute, tempo) dona a chi “ha bisogno” . Essa è, piuttosto, un piano orizzontale nel quale ognuno si muove con il suo punto di vista (da seduto, da in piedi, da chi parla molto e da chi molto ascolta) e nel quale ogni incontro assume il valore di un incontro unico.
(Anna Bonalumi)