Il coraggio, la rabbia e il perdono hanno il volto della donna seduta di fronte, una mattina di maggio. E’ venuta al Gabbiano, su invito, per raccontarci una storia lunga cinquant’anni e per regalare l’ennesima conferma che tutti hanno qualcosa da insegnare e che saper ascoltare migliora la qualità della vita. Lei arriva intorno alle 10. Il look è sportivo: indossa un giubbotto nero sopra una t-shirt bianca e pantaloni bianchi. La manica del giubbotto, sollevandosi, lascia intravedere una dedica tatuata sul braccio. Quella dedica, lo scopriremo solo alla fine, è per l’uomo che quasi quarant’anni prima le aveva fatto conoscere il significato della parola delusione. Non un fidanzato, ma un padre. Non un padre biologico, ma persino qualcosa di più: un padre arrivato dopo, che ti accetta. Un padre acquisito, che affianca la mamma separata, che ti accoglie e ti fa sentire la miglior figlia possibile. Cosa può volere di più una ragazzina di tredici anni?
Forse per invidia dell’intera vita ancora da assaporare, un destino invidioso, nel 1989, le porta via la madre e poco dopo anche il padre naturale. Lei però, anche se giovanissima, è molto determinata e il destino scopre subito che deve impegnarsi tanto per farla inciampare. E così, pensando di metterla spalle al muro, le presenta un bel tris duro da digerire: le sorelle più grandi che non riescono a occuparsi di lei, i fratelli che sono a loro volta vittime di una fragilità importante e il padre acquisito, quello che sembrava una quercia rassicurante sotto cui ripararsi, che cede di schianto. Lui è solo un uomo, non può avere la forza di questa giovane donna di tredici anni e infatti sente molto presto l’urgenza di rifarsi una vita. Lei se ne accorge così: torna nella casa dove viveva per prendere qualche vestito (si era momentaneamente sistemata da una delle sorelle) e, quando finalmente riesce a entrare, vede un accappatoio giallo con dentro una donna e un collo sconosciuto intorno al quale penzolava la collana di sua mamma. E allora entra, rompe quello che c’era da rompere, piange, urla, chiama i carabinieri, cerca nel padre un uomo che non c’è più nemmeno nelle sembianze. La cameretta? Vuota. Non c’è più niente nemmeno lì. Non ci sono più neanche i diari dove lei aveva scrupolosamente annotato la fatica dell’accudimento di una madre malata, le lacrime raccolte e asciugate in uno scottex, i primi capelli caduti dopo la chemio.
Questa ragazzina coraggiosa del 1989 vive a Baggio, l’avrete incontrata cento volte. Le avrete parlato, l’avrete salutata, magari ci avete pure discusso, chi lo sa. Ma chi poteva immaginare l’intensità della sua storia personale? Dovevate esserci ad ascoltare questo racconto che sembra un romanzo e invece è verità. Avete presente quelle trasmissioni trash di “storie di vita” dove piangono e litigano tutti? Ecco, pensate al contrario. Pensate a una donna che trasmette energia, positività, passione e voglia di vivere sia che parli di una delusione da sentire il vuoto (anzi “da sentire staccarti le braccia”) sia che parli di sua figlia che quella volta non aveva rifatto il letto e allora lei gliel’ha combinata bella. Questa ricchezza nascosta lei ce l’ha (e ha pure una capacità non comune di raccontare), ma può averla chiunque incontriamo per strada. Che errore giudicare in base a parametri frettolosi, senza conoscere.
Se c’è una cosa che lei, col tempo, ha imparato a non fare è proprio giudicare.
Si è arrabbiata, e pure tanto, quello sì, ma a distanza di anni, oggi, ha persino accettato che queste cose possono succedere.
A lei successo di ritrovarsi da un giorno con l‘altro in una comunità per minori dalle parti di Bonola. Che significa entrare, sentire il portone chiudersi alle spalle e capire di non avere più la propria libertà. E’ curioso come i flash possano essere ancora oggi chiarissimi dopo tanti anni. Gli arredi, il marmo lucido, le colonne. In un certo senso l’Istituto era un castello. Con le porte di legno che si aprivano sui vari laboratori, le camerate con tredici letti. Le regole. Le attività da svolgere insieme. La speranza. Beh, dài, vuoi vedere che forse non è poi così male? L’incontro con le compagne porta storie di arroganza e difficoltà di farsi accettare, certo, ma anche storie di solidarietà, di fatica e di aiuto. “Vieni, ti faccio vedere questo spazio”. Mettiamola così: se hai un’indole sociale innata, la vita di comunità finisce per esaltarla e gli aneddoti si sprecano: “Taglio io i panini per la gita!”. In una vita di comunità scopri come mettersi al servizio degli altri in realtà faccia stare bene prima di tutto te. Ciascuno trova il suo ruolo per far funzionare bene la squadra. C’è una pericolosa assonanza tra quanto questa donna di Baggio ha scoperto vivendo sulla pelle il proprio “romanzo di formazione” e l’attività di volontariato al Gabbiano. Ma lei ha una carta in più di giocare, che giustifica la nostra scelta di dedicarle questo spazio: non si è fermata al lamento o alla rabbia, ma è riuscita a trasformare le difficoltà in energia positiva e costruttiva. Ed è esattamente di questo che parleremo il mese prossimo, nella seconda puntata, quando diremo chi è.