Nel 1989, agli occhi di una ragazzina, sembrava una prigione da cui fuggire il prima possibile. E allora perché, tanti anni dopo, scoprendo che di quella comunità di accoglienza che aveva Nazareth nel nome, non era rimasto niente, la ragazzina divenuta donna avverte nostalgia? Forse perchè, crescendo, gli occhi restano gli stessi e invece lo sguardo cambia. Una volta una suora disse alla ragazzina ribelle, protagonista della nostra storia, che quando è impossibile modificare qualcosa bisogna imparare a cambiare il modo di guardare quella stessa cosa. Ecco un’altra assonanza con uno dei capisaldi del Gabbiano: l’equilibrio tra l’istinto di provarci sempre, a spostare il limite più in là, e la scelta di accettare il limite come parte della vita senza sentirsi onnipotenti. Praticamente eravamo “amici” senza saperlo e senza conoscerci. Succede che a 19 anni, con questo bagaglio di vita dentro di sè, la ragazza esce dalla comunità che l’aveva accolta ed entra nel “mondo di fuori”, dove la sorte ci riprova più volte a farla inciampare. Subito un guaio di salute molto serio, ad esempio, con annesso verdetto inappellabile: se non provi questa cura sperimentale, che purtroppo è pure dolorosa, non avrai mai figli. Non essendo tipo da piangersi addosso, lei cosa fa? Accetta il verdetto e fa la sua scelta, dando successivamente alla sorte tre risposte forti e chiare: Asia nel 2001, Greta nel 2005 e Siria nel 2009. Diciamo che, in quel caso, il limite si poteva spostare… eccome! Ma prima di arrivare lì ce n’è stata tanta di strada. Intanto sapete qual è il lato positivo della vita in comunità? E’ che ciascuno ha il suo ruolo. E’ una cosa importantissima. Là dentro lei faceva anche dei piccoli lavori e questi le hanno consentito di accantonare un gruzzoletto. Infatti, grazie anche a un risparmio lasciato dalla madre, quando esce si compra la 126 Bis. Che soddisfazione, avere un ruolo dà un senso alle giornate. Già, ma quando esci? Quando esci quel ruolo te lo devi conquistare e lei se lo costruisce iniziando a lavorare da commessa in zona centro, fidanzandosi con ragazzo, andando a vivere con lui a Crema e scoprendo la vita da pendolare. Poi, un giorno, la svolta: accetta un altro posto che le migliora la condizione economica e che le permette di non lavorare la domenica. Cose normali, no? Solo che in questo secondo posto lei conosce un giovane panettiere di nome Vito. Sarà forse il DNA (lei arrivava da una famiglia di panettieri), ma scatta qualcosa che per entrambi non è negoziabile. Risultato: non nasce solo una relazione ma… nasce anche un panificio. Lei, infatti, individua in lui un talento definitivo nel creare il pane. Appena sua sorella la informa che in via Cabella si era liberato uno spazio commerciale, decidono insieme di lanciarsi in questa avventura. Nasce “La Bottega di Mavi” e in poco tempo, complice lo “sfornarello” inventato da Vito, si arriva a sette dipendenti. Succede poi qualcosa di straordinario, ma per coglierne a fondo la portata, dovreste avere sotto mano la prima parte della storia, quindi riprendete il numero di giugno: la cosa eccezionale è che si presenta il “padre putativo”. Ma sì, quello che sembrava una quercia e invece non lo era. Il racconto meriterebbe una puntata a parte, ma siccome non si può, diciamo che ancora una volta lei sorprende tutti. Non dimentica certo il dolore vissuto, ma decide, piano piano, di accogliere il pentimento di quest’uomo fragile che era andato a cercarla. Diciamo che lo perdona. E lo cura, gli dona amore, gli porta il pane.
“Sembrava meno grande e grosso di prima – dice -, o forse ero io ad essere cresciuta”.
Ancora una volta tornava la scelta di switchare in positivo qualcosa di negativo. Il coraggio, la rabbia e il perdono, dicevamo, appunto, un mese fa.
Davvero bello quel tempo di sole in cui ci si può godere un po’ di tranquillità.
Peccato che sulla strada c’era un altro temporale in agguato, con tuoni e fulmini da far paura. La bufera si materializza nel 2009: prima con un grave incidente stradale, poi con una importante complicazione professionale imprevedibile. Per la prima volta persino la protagonista della nostra storia sembra cedere. Pensa sia finita la magia. Ma, parole sue che chiede di riportare: “Il Signore mi ha tolto e mi ha restituito”. Sempre nel 2009 incontra un vecchio fornitore vicino al Mercato Rionale che le propone un panificio in via Gianella. Sei mesi in affitto per provare, acquisto nel 2010. La prima preoccupazione di Vito è strana: trovare qualcosa da fare nel periodo estivo, perché quell’anno non c’è spazio per le vacanze. “Si potrebbe inventare un nuovo pane” – pensa. Ma sì, lo “sfornarello” ormai è consolidato, serve un nuovo scatto di fantasia. Forse quell’impasto idratato, lucido… Allora fa le sue prove e quando è certo di avere un buon risultato:
Oh no!
Sono usciti tutti con la pancia!
Prova a metterci un po’ di olio!
Oh no, facciamo i quadretti, o non li vorrà nessuno!
Quanto si sbagliava. In realtà quel pane lo hanno voluto e lo stanno volendo tutti. Chiamano persino da fuori Milano per averlo. In panetteria hanno anche dovuto ricostruire la ricetta perché, visti i primi risultati poco soddisfacenti, non l’avevano tenuta. Per il nome ci fu una lotteria che fu vinta dal signor Luigi: Puccia. Come la “pucia” in cui si intinge il pane.
“La Puccia di Baggio nasce da un errore, uno splendido disastro del panettiere Vito e non c’entra niente con la Puccia del Salento – spiega lei”.
Sembrava qualcosa di imperfetto, di sbagliato, di riuscito male e invece c’era parecchio da apprezzare in quella apparente imperfezione. Di nuovo un’assonanza con il Gabbiano, che spiega l’attenzione istintiva e disinteressata che sempre c’è stata nei nostri confronti. I tanti regali di questi anni, le chiacchere, la colomba, il panettone… Ma forse non c’entra il pane e nemmeno il volontariato, è proprio la vita che funziona così. Ah, quasi dimenticavamo. La protagonista della storia si chiama Mary e ha creato il panificio “La Pucceria di Mary e Vito” di fronte al Gabbiano.