Radio, televisione, giornali, colleghi, vicini di casa, figli, genitori, amici, mogli e mariti : nel corso della giornata siamo sottoposti ad una raffica continua di parole e molto spesso finiamo per “chiudere le orecchie” per non essere travolti da questo mare di suoni. Se siamo onesti con noi stessi dobbiamo riconoscere che tante volte ci limitiamo a sentire, cioè a cogliere quanto ci viene comunicato in maniera diretta: una serie di informazioni e di richieste. Ascoltare, però, è un’altra cosa. E’ porsi in posizione di apertura prima di tutto nei confronti di noi stessi, accettare che nella vita di ognuno c’è sempre qualche fatto che ci pone davanti alla nostra limitatezza in quanto uomini -per esempio un insuccesso professionale o scolastico, oppure una piccola disabilità che ci impedisce di realizzare un sogno (mi ricordo di un mio compagno di scuola che voleva fare il paracadutista ma scoprì di essere miope, in una percentuale piccola, ma sufficiente per vanificare il suo desiderio). Se compiamo questo percorso arriviamo, tra l’altro, a comprendere che il portatore di handicap non è che una persona con una disabilità più evidente della nostra.
L’ascolto non è un atteggiamento insito nella natura umana, è necessario educarsi ad ascoltare e in primo luogo occorre imparare ad ascoltare noi stessi. L’attenzione per gli altri, infatti, include un’abitudine all’ascolto di sé, sia che ne siamo consapevoli sia a livello inconscio: nell’atto di ascoltare entra in gioco tutta la nostra persona, la nostra sensibilità, la nostra storia, le nostre aspettative. Spesso, per le motivazioni più varie, riempiamo la nostra giornata di talmente tante cose che abbiamo perso l’abitudine a guardarci dentro, cioè ad ascoltarci. Siamo, insomma, incapaci di intrattenerci con noi stessi: condizione, questa, indispensabile per intrattenersi e conve rsare con “un altro come me”. Il dialogo caratterizza tanta parte del tempo che passiamo con gli altri e spesso è contrassegnato dal “giudizio”, cioè dalla valutazione delle cose dal nostro esclusivo punto di vista. Un semplice esempio di questo modo di comportarsi ci viene dalla relazione genitori-figli: se un bambino ha timore di un evento, non avrà per lui alcun valore affermare che quella paura è inutile , occorrerà piuttosto “porsi in ascolto” , cioè cercare di capire da cosa sia determinato quel preciso timore, quali ansie nasconda e in quale modo lo si possa aiutare a superarlo. Un altro esempio ci deriva dalla quotidianità: se in una famiglia ci sono delle decisioni da prendere e queste generano conflitti tra i vari membri, la posizione più “adulta” sarà quella di colui che sa ascoltare le ragioni dell’altro tanto quanto è in grado di motivare e sostenere le proprie. Questo modus vivendi , che a tutti appare come il più logico , non è tuttavia sempre applicato, perché se siamo onesti possiamo affermare che “spesso si tende a vo ler far valere la propria opinione senza porsi in discussione”. Ascoltare significa innanzi tutto credere che l’altro abbia qualcosa da dire, da esprimere. Afferma Jean Vanier , fondatore della comunità dell’Archè : “Quando si vive con delle persone in difficoltà bisogna essere esperti nella comunicazione, comprendere cosa sta dicendo, dove sono le sue necessità e dov’è la sua sofferenza. ”
Porsi in ascolto è anche rendersi conto che chi sta di fronte a noi è una persona con una storia precisa, con un vissuto affettivo a volte sofferto, sicuramente con un senso di disagio nelle relazioni interpersonali, ma non così diversa da noi. Questo può accadere se abbiamo “ascoltato la nostra disabilità”, se siamo stati capaci di scoprire dentro di noi un limite, che non ci permette di innalzarci al di sopra degli altri stabilendo cosa è normale e cosa no. Ascoltare noi stessi, guardarsi dentro, riflettere sul fatto che molti di noi hanno difficoltà a riconoscere e ad accettare i propri handicap, le proprie sofferenze e fragilità ci pone su di un piano di uguaglianza. Ascoltare sé stessi è fondamentale, viene prima di ogni altra forma di ascolto, ma non è una cosa semplice, soprattutto non è una cosa alla quale siamo abituati. Vuoi dire riprendere in mano la propria vita, riconoscere che ci sono fatti che non comprendiamo, paure di affrontare determinate situazioni, ma anche potenzialità nascoste, altitudini che ci siamo scordati di possedere. Presi dai tanti impegni di ogni giorno, ci siamo forse scordati di avere un interesse particolare, abbiamo trascurato una parte di noi stessi, negandoci del tempo per riflettere e stare un po’ da soli. Dobbiamo riscoprirci persone e non una sorta di robot factotum , che girano come delle trottole dal mattino alla sera. Solo così potremo riconoscere nelle persone che ci sono intorno, nello specifico in un disabile, un “altro come me” e sapremo dargli ascolto. Occorre rendersi conto che in ogni relazione interpersonale entrano in gioco tanti fattori ( sensibilità individuale, simpatia, affinità di carattere, ecc.) e pertanto con ognuno ci rapportiamo in modo differente. Questo non deve stupirei, né tanto meno metterei a disagio: è però utile rendersi conto di queste cose, perché ci aiuta a vedere i nostri limiti e forse a divenire più tolleranti nei confronti di quelli altrui.