Il primo ottobre l’Associazione ha partecipato all’incontro “Disabilità: separare fa male? …anche a scuola?”, organizzato da Ledha (Lega per i diritti delle persone con disabilità) presso l’Università degli studi di Milano Bicocca.
Il convegno prendeva lo spunto da una ricerca recentemente pubblicata da Giovanni Merlo (“L’attrazione speciale” – Maggioli Editore) sul tema delle scuole cosiddette speciali, ovvero dedicate in via esclusiva a studenti con disabilità.
Scuole che, secondo la legislazione, dovrebbero essere ormai superate in favore del principio dell’inclusione scolastica, sancito anche dalla Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità. Ogni bambino o ragazzo ha infatti il diritto di accedere alla scuola “di tutti”; la sua disabilità non deve costituire motivo di esclusione, piuttosto vanno garantite all’interno delle scuole “normali” le misure necessarie in risposta ai suoi bisogni “speciali”.
Forse non tutti lo sanno, ma l’Italia è punto di riferimento internazionale proprio per come persegue l’inclusione scolastica. I problemi esistono, inutile negarlo (anzi, nel tempo stanno aumentando) ma l’inclusione rimane un’esperienza di successo, anche se non fa notizia.
La ricerca sopra citata ha messo in evidenza che però le scuole speciali esistono tutt’oggi anche in Italia. Nella sola Lombardia ce ne sono 24 e accolgono circa 900 studenti (a cui si aggiungono altrettanti ragazzi inseriti anticipatamente in servizi specifici per la disabilità prima che abbiano assolto l’obbligo scolastico).
Il ricercatore ha intervistato i genitori di questi studenti, immaginandosi di trovare famiglie scontente, i cui figli avessero sperimentato percorsi fallimentari nella scuola “normale” e che avessero dovuto ripiegare loro malgrado verso scuole “speciali”. Ma non è stato così. Le famiglie hanno dichiarato di aver scelto questo tipo di scuole in ragione della gravità del proprio caso. Dalle loro parole sono emersi la paura dell’esclusione, la difficoltà a immaginare il proprio figlio in mezzo agli altri, ma anche il dubbio sull’utilità stessa di frequentare la scuola.
D’altronde sono spesso i servizi, i medici, gli specialisti, i presidi ad indirizzare le famiglie in questo senso.
Stiamo allora tornando indietro?
L’idea del ricercatore è che si stia perdendo il senso di quella sfida per cui le associazioni tanto hanno lottato in passato. La ricerca parla di ”attrazione speciale”, perché da un certo punto di vista, ammettiamolo, le scuole speciali sono rassicuranti: se la disabilità è molto grave, quale luogo migliore di un centro specializzato, gestito da “esperti”, che copre l’orario pieno (si pensi alle ore sempre più risicate di sostegno offerte nelle scuole), dove tutti sono uguali, dove si accede direttamente ai trattamenti riabilitativi?
In questo modo però, un gran numero di bambini e ragazzi scompaiono dalla scuola, senza che neanche ce ne si accorga. Non li si vede più o non li si vede affatto. Si escludono in nome della loro gravità, rinunciando in definitiva alla loro inclusione.
Il convegno solleva un problema importante, a cui tuttavia è difficile trovare una risposta definitiva. Se sul piano teorico l’inclusione scolastica è un principio fondamentale, la pratica scolastica quotidiana e in generale la disabilità riservano difficoltà che non si possono ignorare o risolvere in maniera univoca e predefinita.
Quel che è certo, l’integrazione non è – e non deve essere – un problema del singolo, ma della società. Non può esserci infatti inclusione sociale se non c’è coesione sociale.
Quando pensiamo alla disabilità, sforziamoci allora di capire se davvero le scuole speciali sono l’unica possibilità, o se invece possano esserci le condizioni per includere nella scuola di tutti. Chiediamoci cosa sia necessario, cosa possa fare la società, perché l’inclusione non rimanga solo una bella parola sulla carta.
E infine, non dimentichiamo che i ragazzini con disabilità sono anche risorsa all’interno della scuola. Se è vero che la scuola non è solo istruzione, ma anche scuola di vita, ecco allora come anche i ragazzi normodotati possano trarre vantaggio dall’inclusione scolastica, imparando a confrontarsi con la fragilità e a relazionarsi con chi è diverso.
(Federica Calza)